di Giorgio Bonsanti (*)
Questo mio testo per il numero 100 di Kermes è stato scritto facendo riferimento sostanzialmente alla storia della rivista così come si è svolta finora, ed è una storia di qualità (ne sono convinto) ma soprattutto italiana, anche se non sono mancati contributi sia di autori stranieri, sia che trattassero argomenti di soggetto e di interesse internazionale (citerò solo due esempi recenti: il numero monografico 94/95 su Poussin e l’articolo sui dipinti della cupola dell’Isaac Theatre Royal di Christchurch in Nuova Zelanda, nel numero 99). Al nostro Comitato di redazione, del resto, appartengono una collega spagnola e una americana, a conferma che l’intenzione di aprirsi alle esperienze degli altri Paesi è sempre stata nel DNA di Kermes fin dai suoi inizi.
Nei nostri progetti però ci proponiamo di potenziare sempre di più in futuro l’offerta a un pubblico internazionale, ospitando scritti nelle lingue più diffuse e accessibili dal pubblico italiano (francese, spagnolo e naturalmente inglese, che funziona da lingua di scambio in tutto il mondo e che potrà valere per tutti i contributi che giungessero da qualsiasi altro Paese del globo). Il nostro scopo è quello di attrarre tutti coloro che si interessano delle problematiche della conservazione del patrimonio culturale, ovunque si trovino e quale che sia il loro ambito professionale di attività. Ci proponiamo dunque in primo luogo di allargare il nostro panel di peer reviewers cercando la collaborazione di quei colleghi stranieri che abbiamo imparato a conoscere e apprezzare, interessati come noi lo siamo a creare una rivista che rispetti la scientificità dei contenuti ma che possa risultare facilmente e largamente leggibile; e che dovrà offrire una sede pienamente affidabile di scambio e confronto di conoscenze garantendo l’uscita regolare dei fascicoli previsti.
Del resto possiamo già registrare che siamo giunti al numero 100 della nostra rivista, un risultato certamente apprezzabile.
Nel primo fascicolo, la redazione si componeva di sei restauratori, tutti appartenenti all’ARI (Associazione Restauratori Italiani), di cui Kermes risultava pertanto un’emanazione. Tanto è cambiato, da allora, come prevedibile e nell’ordine delle cose; qualcosa in peggio e qualcosa anche in meglio, com’è giusto riconoscere. L’editoriale di Giovanni Urbani, già direttore dell’Istituto Centrale del Restauro, nel primo numero (gennaio-aprile 1988), difendeva vigorosamente lo status professionale dei restauratori, ed è forse qui che si registrano i cambiamenti più significativi.
La legge di istituzione della Scuola di Restauro dell’Opificio delle Pietre Dure, approvata nel gennaio 1992 e subito estesa nei contenuti anche all’ICR (mentre il regolamento di esecuzione è del 1997), richiedeva per l’accesso ai corsi il possesso del diploma di scuola superiore, e stabiliva la durata del percorso in quattro anni: due condizioni che ponevano le condizioni per una parificazione universitaria.
È il caso di ricordare infatti che il Regolamento della Scuola dell’ICR, del 1955, si accontentava del diploma di scuola media inferiore. Nel “Codice Urbani” del 2004 gli articoli 29 e 182 compivano un ampio excursus sul restauro, tentando anche definizioni che abitualmente si affidano a documenti di teoria; nei Paesi anglosassoni, piuttosto di “ethics of restoration”.
Il percorso di accreditamento per i restauratori formatisi e attivi prima dei due decreti ministeriali nn. 86 e 87 del 26 maggio 2009 non è ancora compiuto, grave pecca nel momento in cui si è svolto invece un concorso nazionale che immette nei ruoli del MiBACT un numero elativamente consistente di restauratori; e qui sicuramente si è dimostrata una tradizionale difficoltà delle amministrazioni centrali a tenere il passo con le necessità della nazione, che stanno sempre un gradino avanti. Ma i due decreti, con la definizione della figura professionale del restauratore (e di quelle “accessorie”) e dell’iter di studi a mezzo del quale si consegue la qualifica, sono da considerare il punto di approdo di un cammino plurisecolare che è stato percorso dalla migliore tradizione italiana nel restauro. Questi due decreti, a parte le questioni di contenuto (il raggiungimento dello status universitario, al passo con gli altri Paesi del globo), hanno dimostrato un apprezzabile valore culturale, e nel loro complesso hanno riproposto per la nostra nazione una collocazione di avanguardia nel contesto internazionale.
È da dire però che l’apertura dei corsi universitari, forse troppo numerosi, non soltanto non controllata (il che probabilmente non era nei poteri di nessuno), ma nemmeno oggetto di dibattito e intelligentemente indirizzata, richiede di essere sottoposta a diversi ripensamenti. Il sistema adesso esiste, ma il suo funzionamento deve essere riesaminato. È da aggiungere anche che la Commissione di Controllo dell’Insegnamento, che io presiedo, non può svolgere pienamente il proprio compito perché la mancanza di finanziamenti per le attività di sopralluogo ne rende imperfetta (per servirsi di una terminologia specificamente giuridica) l’azione. E non si può non lamentare anche il sostanziale disinteresse dimostrato nei confronti della Commissione in particolare dal MIUR, quando l’elemento caratterizzante del DM 87, di forte importanza culturale, stava proprio nell’unità di intenti e di azione dei due ministeri.
Abbiamo menzionato l’editoriale di Giovanni Urbani; e ricorderò allora che la sua conferenza di presentazione del volume speciale dell’Opificio dedicato al restauro del marmo (1987) confluì nel numero 3, del 1988, della rivista dell’Opificio stesso, OPD Restauro. A conferma che anche l’istituto fiorentino si apriva maggiormente al panorama nazionale e internazionale del restauro, e che il valore della figura di Urbani era già riconosciuto come quello di una personalità dalla quale il mondo italiano del restauro aveva molto da apprendere. In effetti, forse la maggiore dimostrazione di una raggiunta maturità del restauro nel nostro Paese non è consistita tanto nelle innovazioni tecniche, che pure ci sono state, e tante. Ne ricorderò qualcuna alla rinfusa, e, come si vede, certamente non tutte sono state sviluppate in Italia (ma è da apprezzare che il nostro Paese in ogni caso le abbia assunte tempestivamente): ecco così
l’impiego del laser; le puliture “alternative” (solvent gels, enzimi, ecc.); le nanotecnologie e i consolidamenti inorganici; l’uso del ciclododecano e dei gel di agar; i restauri dei supporti, sia su legno che su tela, con enormi passi avanti nel loro mantenimento; l’enorme sviluppo delle indagini scientifiche; e molto altro si potrebbe aggiungere.
Ma, riprendo il filo del discorso, la maturità del nostro restauro raggiunta negli ultimi tempi consiste nella consapevolezza che questa disciplina, difficile ma entusiasmante nella sua giunzione fra arte, scienza e saperi di tradizione, deve aprire lo sguardo nei confronti del mondo. Non c’è salvezza per qualsiasi manufatto che testimoni le civiltà passate, se non correlandolo con le questioni essenziali della vita e della sopravvivenza del pianeta. In questo senso, il restauratore si trova nella posizione privilegiata di chi può identificare gli elementi di degrado nel corpo vivo dell’opera, e svolgere di conseguenza il ruolo di una coscienza critica nei confronti degli abusi che dappertutto si compiono nei confronti dei beni fondamentali della nostra esistenza: la terra, l’aria, l’acqua. Io sono convinto, in conclusione, che i restauratori non siano troppo numerosi, come si sente ripetere frequentemente, ma pochi: se saremo capaci di imporre la nozione della conservazione e del restauro come attività fondamentale e imprescindibile nella civiltà umana, basilare per garantire e migliorare la vita di tutti.
Kermes si propone di contribuire a diffondere e difendere questa consapevolezza.
(*) Garante scientifico di Kermes. Già soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure e ordinario di Restauro alle Università di Torino e Firenze; presidente della Commissione Interministeriale per l’Insegnamento del Restauro.