Pubblicato in Finestre sull’Arte di Daniele Manacorda , scritto il 04/01/2024 Categorie: Opinioni
L’invito a intervenire nella discussione riaccesa dall’improvvido decreto ministeriale 161 propone alcune domande, alle quali non è facile dare risposte in poche pagine. A meno che non si prenda atto che esistono problemi resi inutilmente complessi da norme vecchie, ignare della rivoluzione digitale e della comunicazione planetaria, per i quali è forse meglio individuare soluzioni semplici. E nulla è più semplice della libertà, se questa non lede diritti altrui. E infatti uno dei nodi della vicenda è se la Pubblica Amministrazione abbia diritto di trarre benefici economici non dall’uso di beni e spazi che ha in consegna (questo è pacifico), ma dalle loro immagini, cioè da beni immateriali, che meglio definiremmo come beni comuni, il cui uso è a tutti gli effetti non rivale.
È pacifico che la riscossione di questi benedetti canoni produce per l’Amministrazione un danno erariale (lo ha notato anche la Corte dei Conti). Ma lo Stato non ha interessi (materiali) da rivendicare, semplicemente perché non è proprietario di quel bene immateriale che sono le immagini, e semmai ha, al contrario, l’obbligo della loro diffusione in forza dell’articolo 9 della Costituzione. Anche perché il testo dell’articolo 108 del Codice Urbani (che è la norma di riferimento per l’imposizione dei canoni) va letto alla luce della successiva Convenzione di Faro (oggi legge dello Stato), che afferma che “chiunque, da solo o collettivamente, ha diritto a trarre beneficio dal patrimonio culturale e a contribuire al suo arricchimento”.
La apparente radicalità di questa mia affermazione è alimentata dall’ignobile (non trovo altri aggettivi) richiamo all’articolo 20 dello stesso Codice (che tutela il bene culturale nella sua materialità) con cui si vorrebbe giustificare un controllo preventivo dei comportamenti sociali, cioè la censura. Questa prospettiva è talmente eversiva da costringerci a richiamare i valori primari della Costituzione, anche a seguito delle pronunce di qualche tribunale civile, che ha introdotto un inopinato diritto all’immagine che sarebbe goduto dal bene stesso, come se fosse una persona fisica, in nome di un non meglio determinato genio italico. Sentenze peraltro stigmatizzate dalla dottrina giuridica più moderna e avvertita.
Alla domanda se l’attuale disciplina dei canoni di riproduzione rischia di nuocere alla conoscenza del patrimonio, la risposta è dunque certamente sì. Mentre non è vero il contrario, poiché la libera circolazione delle immagini non può recare alcun danno all’integrità fisica del bene raffigurato.
E quindi alla domanda, se nell’epoca del web e dei social le leggi riescono a stare al passo delle consuetudini, la risposta è no; ma le leggi possono e devono essere cambiate. Per questo alla cultura giuridica italiana chiediamo non solo di descriverci l’attuale quadro normativo, quasi ad ingessarlo, ma di prefigurare il futuro, che è la funzione propulsiva del diritto nelle società moderne.
La presunzione che un libero uso delle immagini del patrimonio (indipendentemente dagli aspetti monetari, che si risolvono in una odiosa tassa sull’ispirazione) possa avere carattere lesivo del loro valore è un altro aspetto, lunare, dell’attuale dibattito. La libera espressione del pensiero, salvaguardata dall’articolo 21 della Costituzione (quando non contempli offesa al sentimento religioso o al comune senso del pudore), non può essere conculcata in nome di una fumosa difesa del valore simbolico delle immagini. L’articolo 21 protegge il pensiero bello buono e colto, ma anche quello brutto, stupido e volgare. A risolvere le storture ci prova, semmai, il negoziato sociale nelle forme in cui si manifesta il confronto civile nel pubblico e nel privato… non certo la legge, tanto meno se posta in mano non si sa a chi, sulla base di quali principî oggettivi o condivisi, con quale certezza del diritto. Si sta diffondendo infatti l’idea che gli uffici pubblici, prima di concedere l’uso di una immagine, debbano conoscere, ad esempio, il testo del libro cui sono destinate. A queste ubriacature da Stato autoritario occorre pacatamente rispondere che l’imprimatur imposto per secoli dalla Chiesa alle pubblicazioni è stato abolito con la nascita dello Stato italiano.
Occorre dunque domandarsi in base a quali principî si valuterà se l’uso dell’immagine svilisce o altera l’integrità immateriale del bene. Ebbene, io, anziano archeologo istintivamente pacifista, non mi sento affatto offeso dall’immagine pubblicitaria proposta da un’azienda produttrice di armi, che raffigura il David di Michelangelo con un mitra in mano. Sono forse il rappresentante inconsapevole di un settore degenerato della società italiana? o dovremmo dire che quell’immagine sarebbe stata accettabile se David avesse avuto in mano un garofano, come al tempo della rivoluzione del Portogallo? A me pare piuttosto che quel riferimento militare voglia semplicemente riprendere la posa del David michelangiolesco nell’atto di preparare la fionda con la quale ucciderà Golia: si direbbe un riferimento colto da parte di un pubblicitario che ha prodotto qualcosa magari sgradevole per la nostra sensibilità, ma non certo illegale, dal momento che la produzione e vendita delle armi è, ahimé, prevista nei nostri ordinamenti. Parliamo dunque di sensibilità e/o di opportunità. Che cosa c’entrano i tribunali in tutto questo?
Lo stesso dicasi per l’immagine del David riprodotta su una rivista di moda alternata mediante un effetto morphing all’immagine di uno dei modelli italiani più famosi nel mondo. Ciascuno può liberamente giudicare il buono o il cattivo gusto, ma a nessuno sfuggirà che la tecnologia del morphing non fa che adeguare ai tempi quanto fece 150 anni fa Eugène Bataille, con la sua celebre Monnalisa che fuma una pipa (orrore!), e poi nel 1919 Marcel Duchamp applicando i baffi all’immagine della Gioconda insieme con una volgarissima didascalia. È (era) arte? domanda priva di senso, visto che, se Dio vuole, non esiste una definizione pubblica di che cosa sia effettivamente arte, tanto da metterla al riparo dagli strali dei vecchi e nuovi inquisitori. L’uso delle immagini del patrimonio culturale per “libera espressione del pensiero” è peraltro già sancito dal comma 3bis dell’articolo 108, recentemente emendato, che quindi impedisce di usare l’art. 20 di quel Codice per vietare quella stessa libertà. Come si fa a gridare allo scandalo se, a Firenze, una fotografia della facciata del Battistero compare in compagnia di qualche bottiglia di limoncello? non stiamo forse parlando di un vanto del Made in Italy? o la produzione di alcoolici è vietata dalle leggi italiane? “Ma non si può associare l’arte all’alcool!?”. Già, ditelo alle infinite raffigurazioni artistiche dell’Ultima Cena! o buttiamo al secchio le tele di Jackson Pollock, che lottò tutta la vita contro l’alcolismo.
Affidare la censura preventiva dei comportamenti sociali a un ufficio amministrativo significa dunque caricare l’amministrazione di compiti del tutto estranei alla sua natura, che non farebbero che ampliare il divario già spaventoso che le norme vigenti hanno prodotto tra amministrazione e società civile. E se, secondo alcuni giudici, dovremmo considerare illecito qualunque apprezzamento critico sul nostro patrimonio artistico, sappiate che – se non ci svegliamo! – potremo esprimere garbati dubbi sulla verginità della Madonna, ma non potremmo dire in pubblico “Quanto è brutto il David!”, “la Venere di Botticelli/Santanché pare una sciampista!”, “il Colosseo sembra un dente cariato mezzo falso!”, come tranquillamente scriveva Cederna a proposito del Mausoleo di Augusto.
È ora che anche il mondo dell’arte batta un colpo. E che prendiamo finalmente atto che, se le immagini sono la proiezione immateriale di un bene materiale opportunamente tutelato nella sua fisicità, un problema di tutela delle immagini del patrimonio culturale invece semplicemente non esiste: è il concetto stesso che non funziona. È qualcosa che ricorda l’indissolubilità del matrimonio o la difesa assassina dell’onore coniugale: obbrobri previsti dalla legge e luminosamente gettati alle ortiche da una società cresciuta.